IL LINGUAGGIO DELLA VALUTAZIONE

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Valutazione come impegno di correttezza, di chiarezza e di cura – Veicolazione lineare del pensiero –Valutazione come forma di investimento per lo sviluppo dell’identità positiva

 Perché focalizzare l’attenzione sul linguaggio della valutazione?

Perché si vuole partire dall’assunto che la valutazione sia un impegno di correttezza e non c’è correttezza senza chiarezza del linguaggio nelle diverse fasi della valutazione. 

Perché si ha fede nel potere delle parole e nel dovere di sceglierle ed usarle responsabilmente. Perché “La parola è la cosa – perché no? Perché la cosa in fondo non è che un abuso di linguaggio. Non ci sono cose. Ci sono solo parole”, diceva Roger Munier. 

Perché la parola è la cosa più vicina al pensiero. 

Perché la forza della valutazione è nell’esistenza di un linguaggio condiviso, tra MIUR e singole istituzioni scolastiche (decreti legislativi, linee guida), tra dirigente scolastico e collegio docenti (definizione di criteri di valutazione…), tra docenti (che condividono anche il non detto), tra docenti e discenti (attivazione di feedback), tra scuola e famiglie (PTOF, documento di valutazione…). 

Perché se il linguaggio della valutazione si riempie di senso, l’atto valutativo acquista legittimazione e con esso l’istituzione che lo compie.

 “Non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare con chiarezza”.

Questa nota affermazione del filosofo e teorico del rapporto fra linguaggio e realtà istituzionali, John Searle, può considerarsi, a mio avviso, una pista di lavoro per gli addetti alla valutazione, i quali dovrebbero essere in grado di fare un bilancio delle proprie competenze in tal senso ed, eventualmente, individuare e soddisfare bisogni formativi.

Il modo in cui comunichiamo palesa il grado di chiarezza del nostro pensiero. In altre parole, la capacità di veicolare il pensiero in maniera lineare è direttamente proporzionale alla linearità del  pensiero stesso.

Pertanto, a mio avviso, seppure in situazioni informali, si dovrebbero evitare espressioni quali “Valutazione degli alunni”, “Valutazione degli alunni con bisogni educativi speciali”, ecc. Oggetto della valutazione non è l’alunno in sé (alcuna tipologia di alunno!). Oggetto di valutazione può essere il comportamento dell’alunno in situazione di apprendimento, il repertorio di abilità o il bagaglio di conoscenze posseduto, l’uso in modo integrato di competenze, i livelli di apprendimento, ecc., ma non l’alunno, il quale è sempre soggetto, un essere in divenire (che nel suo libero divenire non dev’essere disturbato da giudizi fuorvianti sul suo conto), persona con un suo proprio nucleo essenziale nascosto (ciò che è nascosto ed in fieri può essere dall’esterno tutt’al più intuito, ma non verificato).

Nelle fasi dell’azione valutativa che investono la comunicazione, occorre, innanzitutto, aver ben presente l’intento comunicativo. Ogni messaggio emesso impatta con il ricevente e l’intenzione insita nel messaggio si attiva in un’interpretazione. È imprescindibile, dunque, scegliere con cura, con molta cura, le parole adatte. 

Riporto qui il significato del termine cura,  fornito dal Dizionario Treccani, ossia “Interessamento solerte e premuroso per un oggetto, che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività (…)”.

E riporto qui anche le parole della canzone “La cura” di Franco Battiato, perché ben rappresentano la promessa che il docente potrebbe fare al discente “Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza (…) Perché sei un essere speciale / Ed io avrò cura di te”.

Dunque, scegliere con attenzione le parole adatte, quando ci si rivolge agli alunni per fornire elementi di feedback relativi alla valutazione, qualsiasi età essi abbiano, è un impegno di chiarezza e di cura.

Occorre pensare alla parola come qualcosa che agisce, e quindi, come qualcosa in grado di modificare, mediante la propria azione, interi universi!

Vale la pena ricordare che, tra i caratteri costitutivi del significato delle parole, oltre al concetto cognitivo e ad una molteplicità di legami associativi delle parole con l’ambiente fisico e sociale di appartenenza, vi sono anche delle componenti emotive.

Ragion per cui, le parole dei docenti, che veicolano fondamentali elementi di feedback verso gli alunni, dovrebbero poter positivamente emozionare. Ovvero, le parole che accompagnano la valutazione dovrebbero esprimere empatia e avere una forza attraente. Esse devono esprimere la causa finale (attrazione), che è più potente della causa efficiente (spinta)! E allora il docente può gettare via il disco col quale ripete all’alunno/a “Potresti fare di più, ma non t’impegni” e metterne su un altro “Userò il fascino dell’accoglienza e della fiducia per attrarti e aiutarti a canalizzare la tua energia vitale e a dare il meglio di te”. 

È questo l’atteggiamento che può consentire al docente di avere lo stesso potere del “raggio traente” della navicella spaziale di “Star Trek” (chi ha la mia età, certamente ricorderà il famoso telefilm di fantascienza).

A tal punto, il riferimento a Maria Montessori sta felicemente a questo discorso come il tartufo bianco sulle uova. Mi servo del riferimento alla vera e unica Maria nazionale per ribadire una regola deontologica sempre valida, secondo la quale il docente dovrebbe astenersi dal pensare male di uno studente, per scongiurare il rischio di trasmettere all’allievo una spinta negativa (non è un caso che proprio a M. Montessori  la Zecca dello Stato italiano abbia ritenuto di rendere omaggio, dedicandole una banconota!).

Può star qui felicemente anche il riferimento al famoso “effetto Rosenthal”, forse più conosciuto come “effetto Pigmalione”, ossia una forma di suggestione, in base alla quale le persone hanno la tendenza a conformarsi all’immagine, positiva o negativa quale sia, che gli altri hanno di loro.

Robert Rosenthal, professore di psicologia ad Harvard e Lenore Jacobson, docente, dopo aver sottoposto degli alunni della scuola primaria Oak School a un test d’intelligenza (in realtà inesistente) ne selezionarono alcuni, ai cui docenti fu fatto credere che questi avessero un intelligenza superiore alla media, per poi costatare, a distanza di un anno, che il rendimento dei bambini selezionati era significativamente migliorato. L’esperimento del 1965 dimostrò che, con il loro atteggiamento, i docenti, per effetto delle loro aspettative, avevano positivamente influenzato i loro alunni (le profezie che si auto-avverano).

Occorre che, nella relazione con gli alunni, i docenti (come anche i genitori) abbiano ben presente che “l’identità è il frutto del riconoscimento”, ovvero, “L’identità è un dono sociale”, ribadisce il filosofo Prof. Umberto Galimberti, partendo da Aristotele, per il quale la società viene prima dell’individuo. 

È per questo che, nel fornire elementi di feedback agli alunni, si dovrebbe privilegiare il mettere in evidenza i risultati e gli aspetti positivi e, senza negarli, circoscrivere quelli negativi e proporre, con atteggiamento di fiducia, delle concrete e raggiungibili soluzioni per superarli. 

In altre parole, sarebbe imperdonabile non cogliere l’occasione di considerare la valutazione come forma di investimento per lo sviluppo dell’identità positiva degli alunni.

“Nove”, “cinque”, “dieci”, “livello base”, “livello avanzato”, ecc., descrivono gradi di sviluppo di abilità e conoscenze in determinati momenti o tappe di un percorso di apprendimento,  ma non devono diventare l’altro nome di Mattia, Alice, Anna, Riccardo…

I livelli di apprendimento hanno, come presupposto, la possibilità di miglioramento, quindi di mutare e possono anche riflettere poco chiaramente o per nulla, vocazioni, caratteri, ossia, se esiste, il “daimon”, ovvero, il “demone”, l’occulto compagno di vita (ricevuto prima della nascita, secondo il mito di Er narrato da Platone), che abita Mattia, Alice, Anna, Riccardo… che si esprime mediante un linguaggio cifrato (ci ricorda James Hillman nel suo romanzo “Il codice dell’anima”) e che fa di ciascuno una persona che agisce in un determinato modo, che fa determinate scelte e che prende determinate direzioni.

“I bambini sono intrinsecamente più avanti rispetto a se stessi, anche se a scuola prendono brutti voti e rimangono indietro” (cfr. “Il codice dell’anima” di James Hillman). 

Il linguaggio della valutazione dovrebbe riflettere il rispetto dovuto al mistero che alberga in ogni discente e un pensiero che considera la possibilità di scarto tra le competenze di un bambino/a o di un ragazzo/a e l’espressione del talento o addirittura del genio.

Anna Rita Cancelli, docente. Laurea in Pedagogia conseguita presso Università del Salento con voto 110/110 e Lode; Master universitario di I livello in “Legislazione Scolastica e Management della Negoziazione” conseguito presso Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Perugia. Perfezionamento in “Storia della Filosofia” conseguito presso Università del Salento. Perfezionamento in “Psicologia di Comunità e Empowerment delle donne. Le identità di genere nell’epoca post-moderna” conseguito presso Università del Salento. Specializzazione biennale  polivalente per le attività di sostegno conseguita presso  Università del Salento. Partecipazione al corso della Provincia di Lecce per “Esperto dell’approccio integrato ai minori a rischio di devianze” nell’anno 1997. Operazione matematica preferita: la sottrazione.

 

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