“La scuola in tempi di Covid2 (di ritorno): un tripudio di false partenze per finire in un nulla di fatto”

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Dopo l’esperienza rocambolesca assurta a ruolo di salvagente in un periodo d’assenza prolungata del “fare scuola” così come pedagogicamente concepita in senso stretto, ripiombiamo nuovamente, in periodo di Covid2 (di ritorno), nell’esperienza della didattica “a distanza” con tutti i suoi limiti, primo tra tutti, quello di non essere ancora accessibile a tutta la platea scolastica.

 Per quanto foriera di spunti di riflessione utili ed interessanti, non è assimilabile, a mio avviso, a modello innovativo di riferimento nella prassi didattica: se, infatti, i docenti sono ora meglio preparati ad utilizzare strumenti ed ambienti “nuovi” di lavoro con l’intento pedagogicamente strutturato d’integrare tra loro attività svolte in modalità sincrona ed asincrona, siamo ben lontani da una visione sistemica del “fare scuola” secondo DDI.

Mancano una sistematizzazione organica del lavoro in termini di sviluppo dei programmi, una rivisitazione dei curricoli ed una riorganizzazione coerente dei moduli orari come delle unità di lavoro, per cui tutto sembra demandato all’autonomia di lavoro di singole scuole o alle iniziative dei docenti; infine, la realizzazione d’un piano strutturale di formazione degli studenti per lo sviluppo di competenze digitali, così come atteso dalla L.107/2015, sembra una realtà in divenire.

Manca altresì una piattaforma unica nazionale ufficiale in cui registrare lezioni, presenze, verifiche ed interrogazioni in via telematica anche nel rispetto della privacy. Inoltre, i tempi per l’attuazione d’un piano di digitalizzazione non sembrano ancora maturi.

Il rischio, quindi, è quello di relegarla ad una scelta obbligata di convenienza. 

Se la scuola, in quanto parte d’una macrostruttura organizzativa, risente delle disfunzioni proprie di tutti i servizi pubblici e non solo, in era di Covid2, si vede, ora, ulteriormente deprivata del suo ruolo istituzionale per il susseguirsi di aperture e chiusure forzate e fittizie senza apparenti motivazioni di senso: la vediamo ripiegata su se stessa da disposizioni “piovute dall’alto”, apparentemente dettate da esigenze che non la riguardano. 

Da febbraio 2020 nulla o quasi sembra sia stato fatto per la messa in sicurezza e la ristrutturazione degli ambienti scolastici; nulla, per incrementare gli organici sempre più ridotti per effetto della mancata stabilizzazione del precariato che, anziché infoltirsi, si sta assottigliando sempre più, malgrado l’età avanzata del personale in servizio.

Dopo una chiusura delle attività in presenza, prolungata per sei mesi, la scuola viene riaperta a settembre sistemando gli alunni nelle stesse aule di febbraio, in strutture, nell’insieme, piuttosto fatiscenti, con personale addetto ai servizi ulteriormente ridotto. Tuttavia, viene dipinta pronta a ripartire. 

In era di Covid2, il virus non rappresenta più una sciagura imprevista ma prevedibile. Eppure la scuola di marzo 2020 è rimasta quasi del tutto uguale a se stessa se non per la sostituzione dei banchi vecchi con quelli a rotelle. Nell’immaginario collettivo viene rappresentata come un luogo avulso dalla realtà, in cui gli allievi ed il personale che vi lavora sono esenti da contagio ed in cui tutto funziona bene grazie al rispetto di protocolli. Quali sarebbero, però, queste regole auree?

Quelle che, ad esempio, impongono il distanziamento ostacolando lo svolgimento delle normali attività interattive tra alunni e tra alunni e docenti? S’addicono, queste, ad un mondo duttile e dinamico come quello della vita scolastica? 

Un’ipotetica condizione di sicurezza sarebbe quella che descrive alunni e docenti, immobili per ore, senza mascherina, stipati dentro un’aula con finestre prevalentemente chiuse (nei periodi invernali) ed in religioso silenzio, ad un metro fisso di distanziamento mentre fuori, dove ci sarebbe il mondo reale, tutti camminano all’aperto indossando dispositivi di protezione.

Questa visione idilliaca viene sgretolata dall’ultimo DPCM che invoca nuove regole nell’utilizzo delle mascherine, anche in condizioni di distanziamento e di staticità al banco, in accordo ora anche con il CTS; una “sicurezza” che vede al centro del dibattito querelle tra il Ministero, che invoca una scuola in presenza in nome del diritto allo studio, e le Regioni che, nel vedere il proprio sistema sanitario in sofferenza, procedono inarrestabili con l’emanazione di ordinanze ad hoc. 

In questo inviluppo di regole e cavilli istituzionali, l’unico possibile scenario che si profila sembra quello che vede la nostra scuola affidata ad aperture provvisorie, seguite da chiusure a tempo indeterminato e costretta, quindi, a ripiegarsi in una “didattica a distanza” svalorizzata e svalorizzante ad un tempo; tutto ciò con l’inevitabile conseguenza di delegare la prosecuzione delle attività a spirito d’iniziativa, capacità d’adattamento e passione di Dirigenti e docenti.

Questa tragica pandemia avrebbe potuto essere un’ottima occasione per cambiare alcuni orizzonti di senso. Ed, invece, giunge, in modo assolutamente prevedibile, l’ennesimo nulla di fatto. Non perde significato solo il “fare scuola” in senso lato ma vengono svalorizzati anche il carico di lavoro e la portata della DAD, reinterpretata ancora una volta come un’operazione “salvagente”. 

Cos’è stato fatto, poi, per evitare che la scuola si trasformasse in un potenziale incubatore di contagio, esattamente come qualsiasi altro luogo chiuso, frequentato prevalentemente da individui asintomatici in età appartenente alla prima fascia giovanile?

Com’è possibile sbandierare “condizioni di sicurezza” senza aver messo in atto misure concrete quali, ad esempio, presidi sanitari, screening, tracciamenti, terapie scientificamente validate, sistemi di sanificazione dell’aria? 

Cos’è stato pensato per alleggerire il sovraccarico di lavoro dei medici di medicina generale e pediatria? Non stupisce, allora, se, in era di Covid2, tra protocolli e lungaggini burocratiche, la frequenza scolastica ha rischiato d’assumere prevalentemente carattere di saltuarietà per l’inevitabile verificarsi di prolungati ed obbligati periodi d’assenza.

La scuola, poi, non è un’istituzione astratta: si nutre di pensieri che hanno bisogno d’acquisire forma in seno alla società di cui è parte. Non è sufficiente la mera applicazione di rigidi protocolli per conferirle autorevolezza. Occorre che dietro ciascun comportamento vi sia una motivazione di senso, radicata in un ben preciso inquadramento culturale e che, allo stesso tempo, sia condivisa/ibile con e da tutti. 

Può fare da volano per educare alla salute ispirandosi ad “atteggiamenti mentali” ecologici. Ma quanti condividono, ad esempio, scelte di senso come quelle basate sulla necessità di consentire aerazione negli ambienti? 

Nel susseguirsi di lezioni di educazione civica, diritto alla salute, all’istruzione, storia, letteratura, filosofia e scienze (per citarne alcune), quale migliore occasione viene offerta alla scuola, in questa sfida culturale, per affidarle l’educazione all’attenzione? 

Dove risiede, altrimenti, il senso di comunità educante, orientata ad un’adeguata formazione/informazione anche di tipo scientifico? Questo terreno non è, però, d’esclusivo appannaggio della scuola che riflette anche il mondo attuale di cui è parte.

L’idea stessa di scuola, quale esempio d’ambiente sano in cui ogni sforzo volge a tutelare la salute pubblica, rischia d’essere vanificata se i principi su cui si fonda non sono condivisi (tanto trasversalmente quanto verticalmente) in seno al pensiero collettivo e non vengono tradotti in un sostanziale e radicale cambiamento delle abitudini di vita.

Una simile immagine di scuola rischia, allora, di restare solo un lontano proposito tanto più se si pensa all’evidente stato di semiabbandono in cui versa.

Se è una priorità, deve, allora, esserlo per tutti. Se si crede nell’importanza del suo ruolo, occorre prima di tutto restituirle dignità: non è accettabile assimilarla ad una mera summa di personae, da “parcheggiare” in ambienti intrisi d’aria mefitica e, poi, rispedire a casa col pretesto dell’inadeguatezza del sistema di trasporto pubblico. 

Non serve nemmeno rivestirla di sigle, DDI o DAD, per restituirle autorevolezza. 

Il Covid2 di ritorno resta ma della nostra scuola e dell’idea di scuola cosa rimane?

Non vorrei che dietro questa situazione emergenziale si voglia nascondere un’altra emergenza altrettanto allarmante: l’urgenza di ripensare alla scuola in senso democratico come luogo di tutti e per tutti e focus d’autopoiesi sistemica.

Orsola  Parmegiani Laureata in Fisica. Inizialmente impegnata nella ricerca e negli studi in Fisica medica,  ha seguito un percorso di esperienza e di studio incentrato prevalentemente sull'apprendimento, accumulando negli anni diversi titoli riconosciuti dalle Università tra cui 5 specializzazioni sulle metodologie didattiche, dedicandosi al mondo della scuola in un'esperienza ventennale sul campo anche diversificata.

 

 

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