Covid19 e didattica a distanza: parla l’alunno…

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Con l’interruzione delle attività didattiche il diritto all’istruzione ha raggiunto gli alunni nelle loro abitazioni. Attraverso la DAD la scuola è diventata invasiva, coinvolgendo anche i genitori nella realizzazione di un nuovo modo rapporto docente-discente. Tra i vari problemi quello maggiormente sentito, che la scuola non è riuscita ad eliminare, è stato il divario digitale espresso nella differenza di competenze e dotazioni informatiche a seconda delle classi sociali e dell’età degli studenti. 

 

Gli allievi vogliono essere raggiunti tutti, vogliono sentirsi seguiti con attività che regalino una certa autonomia, attraverso un collegamento digitale che non sovraccarichi e  non affanni l’organizzazione familiare già duramente provata da tutte le complicazioni del momento.Bisogna trovare uno spazio per la valutazione che non deve riferirsi alla sterile somma di voti , ma ad una valutazione formativa dove ogni studente possa essere  compreso attraverso ciò che ha fatto e ciò che potrebbe ancora fare, privilegiando la discussione individuale o collettiva dei lavori svolti e attivando tecniche di autocorrezione .C’ è bisogno di tanta flessibilità nell’ organizzazione oraria, nel lavoro di coordinamento tra i docenti, nella capacità di riformulare le lezioni  per la creazione di un impegno giornaliero che esprima stabilità e continuità. La domanda da porsi è: siamo riusciti, in questa fase di emergenza a rispondere alle esigenze diversificate dei nostri allievi?E’ giusto allora dare voce anche agli studenti e chiedere come hanno vissuto questo periodo, come la didattica a distanza è riuscita a creare un ponte di collegamento. Carlo Pedace, alunno del quinto anno del Liceo Scientifico Pasquale Stanislao Mancini di Avellino nel testo che segue, dal titolo  “COVID-19: TRA DISAGI ED E-SCHOOL” darà il suo contributo :“ L’esperienza della quarantena resa necessaria dal diffondersi del virus Covid-19 è probabilmente una tra le più significative del nuovo millennio. È dai tempi della Guerra Fredda che la situazione politica mondiale non vedeva una crisi di tali proporzioni. In questo caso è decisivo sottolineare, però, come essa si presenti a noi sotto forma di una delle più grandi opere di ingegneria sociale della storia dell’uomo. 

Nel campo della sociologia e delle scienze politiche, con il termine "ingegneria sociale" si intendono tutte quelle azioni dei governi volte a influenzare il comportamento della popolazione; in questo caso, si può parlare di ingegneria sociale perché, anche se le mire non sono di tipo politico ed economico, l’isolamento forzato influenza la nostra società alla radice e ne forza una trasmutazione necessaria alla sopravvivenza. Neanche la guerra avrebbe permesso un tale stravolgimento dalle fondamenta della nostra società. Al di là di tutta la speculazione filosofica che potremmo fare intorno all’argomento, l’uomo è un “animale sociale”, per citare il filosofo greco Aristotele che, già intorno al IV secolo a.C., aveva riconosciuto nell’essere umano la necessità dell’interazione con gli altri individui. Aggirando la questione relativa alla natura di questo bisogno, pochi sono i filosofi che, fino ad oggi, non riconoscano il valore di queste parole. Quindi, se appare riconosciuto nell’uomo il bisogno della vita sociale, la quarantena diventa una forma di snaturalizzazione. È in quest’ottica di drastici cambiamenti, però, che la tecnologia corre in nostro soccorso, nel tentativo di salvare, almeno all’apparenza, alcuni dei momenti della nostra vita senza i quali l’uomo potrebbe perdere le caratteristiche fondamentali del proprio essere.Con l’introduzione dell’E-schooling e dello smart working, negli anni passati era stata messa in dubbio l’efficienza di un sistema scolastico/lavorativo che non permettesse il contatto diretto tra persone. 

Anche la neuroscienziata Daniela Lucangeli, Professoressa ordinaria presso l’Università di Padova, in un’intervista rilasciata per il progetto Mind4Children, asserisce che, nel più recente passato, la tecnologia aveva giocato un ruolo fondamentale nell’allontanamento degli studenti dal mondo della scuola; la tecnologia aveva sovvertito i ruoli e non era più strumento in mano all’uomo, ma un mondo a sé stante, incapace di conciliarsi con la realtà scolastica che, forse troppo pigramente, si avviava a comprenderne le potenzialità intrinseche. È, tuttavia, nel momento del bisogno, che l’ordine è ristabilito e la tecnologia ritorna uno strumento nelle mani dell’uomo il quale, volente o nolente, è costretto a rapportarsi con essa non più come essenza separata e inconciliabile, bensì come uno strumento necessario a contrastare lo stravolgimento della propria natura. L’E-schooling diventa l’unica possibilità per l’istituzione scolastica di perpetuare la conoscenza e permettere la crescita intellettuale dei giovani che, ovviamente, un giorno dovranno uscire nel mondo ed affrontarlo con la giusta preparazione. Al di là della necessità di mantenere intatte le istituzioni sociali basilari (ambienti scolastici e lavorativi), la scuola ha necessità pratiche e non sottovalutabili, ossia mantenere la sua funzione educativa. Inevitabilmente, ciò a cui si va incontro è una nuova rivoluzione scolastica, per certi versi paurosa e temibile, per altri necessaria.

Ma, se finora si è detto di quanto sia essenziale, perché “paurosa e temibile”?

Bisogna, prima di andare avanti, tenere a mente una cosa: la tecnologia si rivela incapace di sostituire l’interazione umana ed è incapace di reggere a lungo termine il ruolo attuale. Parlare, quindi, di una “rivoluzione scolastica” è, forse, troppo pericoloso. La rivoluzione è un processo di stravolgimento irreversibile, un cambiamento di paradigmi, volendo rubare le parole al filosofo Thomas Kuhn; ma se la tecnologia non può sostituire in pianta stabile l’interazione umana, come può essere questa rivoluzione capace di reggere il peso di questa responsabilità?Per spiegare al meglio il concetto si può fare riferimento a un fenomeno diffusosi in Giappone a partire dagli anni Ottanta e che si è propagato in Occidente come una piaga man mano che la pressione e la competizione tra individui aumentava nella società. Il fenomeno in questione è quello dello “hikikomori”, che, come scrive la Professoressa Rosalia Rossi in un articolo, non è classificato come patologia, ma come forma di “disagio sociale”.Il soggetto hikikomori è un ragazzo che evita i contatti con l’ambiente esterno, interagendo con esso nei limiti spaziali della propria casa o, addirittura, della propria cameretta. Un soggetto che vive questa situazione di “disagio” è una persona con particolari difficoltà relazionali dovute ad ambienti di formazione opprimenti, all’incapacità di gestire le proprie emozioni e di sopportare la pressione a cui sono quotidianamente posti i giovani; l’hikikomori, dunque, preferisce isolarsi, vivere nel proprio spazio protetto, lontano dalle pressioni sociali ed interagendo con la società solo attraverso le reti di comunicazione informatiche, le quali lo espongono il meno possibile.

Parlare, dunque, di hikikomori in questa situazione di quarantena è necessario, perché, soprattutto con l’avvento dell’E-schooling, l’autosufficienza della cameretta ha una crescita esponenziale, abbattendo gli obblighi formali dell’interazione quotidiana con gli ambienti scolastici. Si viene, quindi, a creare un grosso interrogativo, che non riguarda, però, soggetti già riconosciuti come hikikomori: riusciranno i soggetti più “deboli”, più “arrendevoli” ad uscire dalla propria cameretta, a riprendere una vita normale? Perché, in fondo, il rischio maggiore dell’E-schooling è proprio l’assenza della necessità degli stimoli derivanti dalla scuola come ambiente e non come istituzione. Il pericolo è che con questo affievolirsi degli stimoli, ma con il permanere delle pressioni, i ragazzi più deboli riconoscano nell'ambiente casalingo l'unico e solo ambiente di conforto e potrebbe capitare che si arrendano, proprio come un hikikomori. La situazione è grave e gli studenti, almeno la maggior parte, non fanno fatica ad accorgersene già dagli inizi, così come i professori. La vita in quarantena, ora, sembra vivibile, eppure in tre settimane, tutti cominciamo a sentire il peso di quella mancanza inevitabile, quella sensazione di vuoto che ci hanno lasciato le persone che prima erano intorno a noi ed ora non ci sono perché chiuse in casa; il vuoto che ci hanno lasciato i compagni di banco, gli amici di ogni giorno, i professori, i bidelli, l’autista del pullman o la panettiera sotto casa. Ci siamo circondati di un’illusione di sensazioni, facciamo chiamate che simulano un rapporto vero, ma la realtà è che nessuno dei sensi ne rimane soddisfatto e questo genera quel senso di incompiutezza che caratterizza la quotidianità dei reclusi. Non c’è niente da fare, l’uomo è fatto di carne e ha il profondo bisogno di provare sensazioni ogni giorno…l’E-schooling, lo smart-working non sono adatti a sostituire la nostra quotidianità.”

Rosalia Rossi (10/07/1965) napoletana, docente di Storia e filosofia. Laureata in Pedagogia con 110 e lode consegue Master Europeo di II livello in Mediazione e gestione dei conflitti. Interessata alle dinamiche sociali e relazionali, si forma come Counselor, Mediatrice familiare ed esperta in PNL Basic Practitioner. Esperta in criminologia clinica. Ha assunto incarico di collaborazione e tutor con l' Università degli studi di Napoli "Suor Orsola Benincasa"; ha partecipato al forum mondiale della Mediazione al Centre de Congres La Regent a Cras Montana con stages in Spagna e Svizzera sulle tematiche della mediazione  del conflitto nei Paesi Europei. Relatrice a corsi di formazione per adulti su " Comunicazione e conflitto". Ha ricoperto per quattro anni il ruolo di collaboratore vicario, componente Consiglio D 'Istituto e del Nucleo Interno di Valutazione. Ha ricevuto encomio dal Dirigente Scolastico per l'eccellente lavoro di collaborazione svolto presso il proprio Istituto.

 

 

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