La scuola nella civiltà della tecnica insegue un nuovo Umanesimo

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Il sostantivo italiano «scuola» deriva dal latino schola o scola che però prende origine dalla parola greca σχολή (scholè) - da ἔχω «occupazione studiosa» -

che significa «tempo libero [dalle fatiche, dal lavoro manuale o dall’attività mercantile], riposo, ozio [latinamente inteso come «cura di sé e della propria saggezza» che passava per la contemplazione e lo studio in contrapposizione al negotium], occupazione studiosa, luogo di studio, scuola, ecc… (cfr. Lorenzo Rocci, Vocabolario greco italiano, Società Editrice Dante Alighieri).È nell’antica Grecia che, nella seconda metà del V sec. a. C., la scuola diventa strumento di educazione. Ed infine, è nell’età ellenistica che la legislazione scolastica diventa uno degli attributi necessari allo Stato.Il rapporto dell’uomo con la tecnica è, da Francesco Bacone in poi, che con il suo Novum Organum pone le basi per la nascita della scienza e della tecnica in senso specificatamente moderno, uno dei temi centrali della riflessione filosofica (ed in senso lato culturale) contemporanea. Un topos che dopo Bacone è stato oggetto di profonda analisi e studio da parte dei più importanti pensatori del Novecento: Martin Heidegger e Günther Anders. Le loro riflessioni, analisi sono oggi portate avanti da autori come Umberto Galimberti, Vittorino Andreoli, Massimo Cacciari, Vittorio V. Alberti che non hanno bisogno certo di alcuna presentazione.

La tecnica rappresenta l’aspetto caratterizzante della nostra civiltà. La tecnica è alla base del progresso della(e) nostra(e) conoscenza(e) e dell’avanzamento della nostra civiltà; essa ha sicuramente permesso e favorito un incremento qualitativo della vita umana, tuttavia la questione diventa più controversa, soprattutto a partire dai primi decenni del Novecento, da quando il «rischio» di un mutamento nel ruolo della tecnica, da strumento nelle mani dell’uomo a meccanismo autonomo che può sfuggire al suo controllo è divenuto ed è più evidente. In piena quarta rivoluzione industriale la tecnica non è più un semplice strumento ma è arrivata a costituire il nostro mondo; la nostra è la civiltà della tecnica. La tecnica, che oggi concepiamo come un’attività tipicamente umana, in origine, nella cultura greca più antica, era considerata una prerogativa divina: la techne apparteneva alle divinità e non in quanto queste la avessero in qualche modo acquisita, ma a livello sostanziale. Gli dèi disponevano di un’abilità tecnica specifica, non perché era loro merito averla scoperta o inventata, ma in quanto questa si identificava con loro. Vista la loro benignità, gli dèi facevano dono ad alcuni uomini o ad alcune comunità di tale capacità e questi potevano in tal modo esercitarla (cfr. G. Cambiano, Platone e le tecniche, Einaudi, Torino 1971, p. 26). Nella tragedia di Eschilo il Prometeo incatenato – il primo manifesto letterario del carattere umano della tecnica- la tecnica (o le tecniche) appaiono ancora come un dono di Prometeo agli uomini per impedire che tutta l’umanità perisca. Nell’antico mito, infatti, il titano Prometeo viene punito dagli dèi per aver donato agli uomini il sapere tecnico nella forma del fuoco. Tale sapere ha una portata notevole sulla vita degli uomini rendendoli – afferma Eschilo nella sua tragedia- «da bambini quali erano, saggi e padroni della loro mente». Il tema della «tecnica» è soprattutto al centro del discorso filosofico del professore Umberto Galimberti (cfr. Parole nomadi, Feltrinelli, 1994; Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica, Feltrinelli, 1999; L’Uomo nell'età della tecnica, AlboVersorio, 2011).

Secondo Galimberti «la tecnica è il tratto comune e caratteristico dell’occidente. La tecnica è il luogo della razionalità assoluta, in cui non c’è spazio per le passioni o le pulsioni, è quindi il luogo specifico in cui la funzionalità e l’organizzazione guidano l’azione […] noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnica è diventata l’ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo quelle regole di razionalità (burocrazia, efficienza, organizzazione) che non esitano a subordinare le esigenze proprie dell’uomo alle esigenze specifiche dell’apparato tecnico. Tuttavia ancora non ci rendiamo conto che il rapporto uomo-tecnica si sia capovolto […] la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona e basta».Riprendendo le lectiones di importanti autori come Heidegger, Jaspers, Marcuse, Freud, Anders il filosofo Galimberti sostiene che oggi l’uomo occidentale dipende completamente dall’apparato tecnico, è un uomo-protesi come sosteneva già il padre della psicoanalisi Sigmud Freud. Nelle sue opere sopra citate Galimberti afferma che «tutto rientra nel sistema tecnico, qualsiasi azione o gesto quotidiano l’uomo compie ha bisogno del sostegno di questo apparato. Ormai viviamo nel paradosso, infatti se l’uomo vuole salvare sé stesso e il pianeta dalle conseguenze del predominio della tecnica (inquinamento, terrorismo, povertà, etc.) lo può fare solo con l’aiuto della tecnica».

Negli ultimi decenni Galimberti parla, dialoga, scrive ai giovani. Li incontra nelle scuole oppure sullo spazio bianco della carta (nelle sue rubriche giornalistiche) ma anche nei vari festival e sul web. Nelle sue ultime opere (L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, 2007; Giovane, hai paura?, Marcianum Press 2015; La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Feltrinelli, 2018) dinanzi a temi complessi come l’omologazione globale, la catastrofe ecologica, ecc… il filosofo suggerisce con saggezza che la «scienza essendo il luogo pensante, potrebbe diventare, invece, il luogo etico della tecnica. In questo senso va recuperato il valore umanistico della scienza: la scienza al servizio dell’umanità e non al servizio della tecnica. La scienza potrebbe diventare il luogo eminente del pensiero che pone un limite. Perché la scienza ha un’attenzione umanistica. Promuove un agire in vista di scopi. Mentre la tecnica è un fare senza scopi, è solo un fare prodotti». Un pensiero-azione che ritorna nelle azioni programmatiche di intellettuali come Umberto Eco, Massimo Cacciari, Vittorio V. Alberti: un nuovo Umanesimo come base sociale dell’Europa, come progetto culturale nel quale l’attenzione al passato è complementare alla riflessione sul futuro. La Scuola – come l’ideale Scuola di Atene di Raffaello – torni ad essere un nucleo di pensiero-azione in cui le polarità (passato e futuro, scienza/tecnica e logos e tante altre) si armonizzino in sintesi per poter portare, dare vita e ri-organizzare una rinascita sulla base dell’istruzione.

 

Pietro Salvatore Reina, docente di religione presso l'Istituto Comprensivo Merano I. Ha conseguito il titolo di Magistero in Scienze Religiose presso l'ISSR «San Luca» di Catania. Laureato in Lettere presso l'Università degli Studi di Catania. Membro del Direttivo della «Società Dante Alighieri»-Comitato di Bolzano. Autore di articoli e recensioni (Stilos) e di tre saggi (Tre donne alla ricerca della verità: Elsa Morante, un angelo amato di penna; Lalla Romano e Susanna Tamaro, l'inquieta via verso la luce; Pier Vittorio Tondelli, un tessitore di parole intrecciate dalla grazia e dalla bellezza) nel volume 5° dell'opera La letteratura e il sacro (a cura di Francesco D. Tosto), Bastogi, Roma, 2017 (Primo Premio «Tulliola Renato Filippelli»). Co-autore con il dirigente scolastico Luigi Martano del saggio Dentro o Fuori. Bullismo - Cyber, Edizioni Circolo Virtuoso, 2017.

 

 

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